Articoli di Giovanni Papini

1955


in "Schegge":
La città impossibile
Pubblicato in: Il nuovo Corriere della Sera, anno LXXX, fasc. 151, p. 3
Data: 26 giugno 1955


pag. 3




   Non saprei dire dove e quando vidi quella meravigliosa città, ma posso e voglio dire che in quella divina città avrei voluto nascere e vivere. Era posata tra il verde di una spaziosa e ariosa pianura, in mezzo a due fiumi non grandi, ma ricchi di acque rapide e limpide. Un eccelso bastione di fiere montagne la difendeva dai venti polari. L'aria era dolce sempre, in ogni stagione dell'anno, e sempre odorosa perchè arbusti e alberi sorgevano nella pianura più numerosi degli edifizì.
   Le case di Dio erano tutte di marmo, di un marmo bianco un po' rosato e di un marmo verde cupo che col tempo diventava quasi nero. Le case degli uomini erano tutte in pietra serena, senza tracce di intonaco e di scialbatura, ed avevano in alto una loggia aperta, sostenuta da svelte colonne, e i davanzali erano pieni di fiori e gli architravi pieni di nidi.
   Le case di Dio erano altissime e immense: le pareti interne erano coperte di mosaici dove figure gigantesche si muovevano leggere sopra vasti cieli d'oro nei quali si aprivano ogni tanto squarci di azzurro oltremarino. S'inalzavano in mezzo a grandi prati dove qua e là ma senza ordine, maestosi alberi, mormoranti fontane e alte arche, offrivano ombra, frescura e pace.
   Tutte le case degli uomini avevano un giardino più o meno ampio e fiorito, secondo i mezzi e i gusti degli abitatori. Ogni quattro o cinque strade si aprivano enormi spazi recinti da doppie file di castagni d'India e di platani, che racchiudevano piccoli paradisi terrestri, tra il domestico e il selvatico, resi felici e belli dai caldi fiori, dalle acque vive, da labirinti ombrosi, da valloncelli colmi di erbe pazze e da nobili alberi, armonicamente ramosi, che facevano pensare a monumenti gloriosi della vegetazione.
   Sulle rive dei due fiumi era vietato murare e sul greto stormivano in lunghe file i salici e i gattici, gli ontani ed i pioppi. E c'erano taverne all'aperto con tende e pergole, dove si poteva chiedere i frutti di ogni paese e stagione e si potevano bere i vini di tutto il mondo.
   Nelle strade della città non si vedevano carrozze nè carri di nessuna forma e specie. Tutti gli abitanti andavano a piedi, a calmi passi, ed io ricordo con gioia i bambini festosi e i giovani ridenti, le ragazze gaie e le spose ilari, gli uomini dai volti illuminati d'una lieta curiosità e i vecchi più pensosi ma pur sempre sereni.
   In quelle strade pulite, ombreggiate e tranquille, non si udivano rumori molesti. strepiti ma-ligni, fracassi bestiali, strombettamenti nè scoppi. nè cigolii, nè clamori o fragori barbari. Gli unici suoni provenivano dal cinguettio dei bambini, dal riso delle donne, dalle arcate dei violini che scendevano dalle finestre e dalle logge, dai canti degli uccelli e dalla musica del vento del crepuscolo nelle piante più frondose.
   E neppure si sentivano nella città quei perniciosi e odiosi fetori che di solito esala l'umanità troppo addensata e accatastata ma soltanto i profumi dei giardini e l'odor di salsedine che la brezza della sera portava dal non lontano mare.
   Ma potrò rivedere mai questa meravigliosa città? Esiste veramente, in qualche angolo della terra, questa divina città? Quale itinerario potrà ricondurmi alla mia città di marmo e di pietra, di fronde e di frutti, di brezze fragranti e di acque fluenti? Soltanto là voglio e posso vivere, nella splendente citta bianca e dorata, color di cielo e di smeraldo, nella miracolosa città dove la solitudine è abitata dalla musica e dove lo stesso silenzio non è che attesa o riposo dei piaceri innocenti.


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